Firenze – Credo sia difficile capire veramente cosa sia una dittatura per chi è nato in un paese occidentale, come l’Italia, dopo la seconda guerra mondiale.Un film come “Burma VJ, Cronache dalla Birmania”, proiettato ieri sera in una sala piena, all’Istituto Stensen di Firenze, aiuta a comprendere: fa vedere (e non immaginare) cosa voglia dire non poter girare liberamente per le strade della propria città con una videocamera o scambiare due parole con il vicino d’autobus, senza il terrore di essere avvicinato dalla polizia segreta; mostra cosa significa essere picchiati in mezzo di strada e caricati su camion militari perchè si sta manifestando per la propria opinione.
Anche per questo il film ha ricevuto la candidatura all’Oscar, come miglior documentario: questa vertigine di spaccato birmano è però una storia vera, non sono immagini girate da operatori professionisti, ma da giornalisti coraggiosi che devono accontentarsi di videocamere di fortuna, spesso nascoste sotto la camicia, o in una borsa, per sfuggire all’occhio attento della polizia; reporter di strada che hanno documentato la “Rivoluzione Zafferano”, la rivolta guidata dai monaci birmani che nell’autunno 2007 portò l’attenzione del mondo sul Myanmar (ex Birmania) per qualche mese e che finì in un bagno di sangue.
La sorpresa è rendersi conto che tutte le immagini di quel periodo che arrivarono sui circuiti internazionali provenivano dal coraggioso lavoro di questi uomini: dall’uccisione del foto-reporter giapponese Kenji Nagai, alle immagini del cadavere di un monaco birmano in un fiume, quei filmati rubati, inviati a tutte le maggiori rete mondiali da “Democratic Voice of Burma”, sono stati rimessi insieme dal regista Anders Ostengaard, che ha ovviamente alterato alcune immagini e cambiato i nomi dei protagonisti: due di loro, infatti, sono stati già arrestati e condannati all’ergastolo.
Non è la prima volta che Firenze ricorda la Birmania e la sua terribile situazione, governata da oltre mezzo secolo di dittatura e con oltre 2000 prigionieri politici: qualche anno fa venne organizzato un concerto al Saschall per sensibilizzare sulla vicenda di Aung San Suu Kyi, la leader del principale partito di opposizione (LND), da quasi venti anni agli arresti domiciliari, solo perchè vittoriosa alle elezioni del 1990; ma la serata di ieri ha permesso di offrire una visione più concreta della Birmania e soprattutto della gente comune che vive in un paese troppo spesso ricordato solo per le foto turistiche alle pagode o ai paesaggi mozzafiato.
Per questo a fine proiezione sono state invitate a parlare Cecilia Brighi, responsabile dei rapporti internazionali della Cisl e autrice del libro “Il Pavone e i generali”, e June Bellamy, erede della dinastia birmana in esilio: due donne che conoscono bene la realtà di questo paese. In particolare Cecilia Brighi ha affrontato il tema dell’impotenza, o presunta tale, della comunità internazionale rispetto alla situazione birmana: un’impotenza dovuta in gran parte agli interessi legati allo sfruttamento delle ricchezze materiali del paese, come le pietre preziose, il gas, il teak, da parte di Cina e India. “Solo nel 2008 l’Unione Europea ha imposto al regime militare una serie di sanzioni economiche, seguendo l’esempio di paesi come gli Usa e la Gran Bretagna – ha spiegato la Brighi – ma il provvedimento è risultato di scarsa efficacia a causa della mancanza di controlli e soprattutto di sanzioni per le aziende che le infrangano”. Non nasconde un moto di indignazione la Brighi quando racconta della reazione europea alla lettura dell’ultimo rapporto del commissario per i diritti umani dell’Onu, Tomas Ojea Quintana, che ha chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta che indaghi sulla violazione dei diritti umani da parte della giunta militare: il responsabile dell’Ue per la Birmania, Piero Fassino, si è limitato a parlare di un “passo avanti”.
Una serie di interessi dunque difficili da scalzare: restano impresse allora le parole di June Bellamy, distinta e saggia signora birmana, che invita ad accontentarsi delle piccole cose. “Chi tace ha convenienza a farlo – ha detto Bellamy – e se non siamo in grado di risolvere le grandi questioni nazionali, almeno continuiamo ad adoperarci nel nostro piccolo per portare aiuto al mio popolo”. Come viene fatto, ad esempio, dall’associazione Baan Unrak (casa della gioia) che accoglie bambini orfani e abbandonati e ragazze madri che dalla Birmania si rifugiano in Thailandia per sfuggire alla repressione del governo birmano: all’associazione è andato il ricavato delle due proiezioni fatte ieri a Firenze.
Ma c’è un impegno anche politico che non può essere dimenticato, ricorda Cecilia Brighi e per il quale l’opinione pubblica può essere determinante: è l’impegno, da parte di chi può godere di libertà di espressione, a non dimenticare la Birmania, a cominciare dalle prossime elezioni che si terranno in autunno e che rischiano di trasformare il paese da dittatura militare in dittatura civile. “L’impegno che dobbiamo prendere è quello di fare in modo che queste elezioni non passino inosservate – ha concluso la Brighi – e soprattutto che, come chiesto da Aung San Suu Kyi e dalle organizzazioni che si battono per i diritti umani in Birmania, non vengano riconosciute dalla Comunità Internazionale”.
Per questo sarà di nuovo fondamentale anche il lavoro dei VJ che continuano dalla Birmania a inviare immagini di quanto ogni giorno accade in quel paese, blindato al resto del mondo.
2 Responses to Burma VJ: Cronache dalla Birmania proiettate a Firenze